Vangelo del 14.01.2024

III domenica dopo l’Epifania - anno B: "Nel Sinai, già con la manna e ora con le quaglie, c’è una abbondanza eccezionale, c’è un eccesso."

Esodo 16

Nel Sinai, già con la manna e ora con le quaglie, c’è una abbondanza eccezionale, c’è un eccesso. Anche nel miracolo di Gesù c’è un eccesso, un’abbondanza senza misura di dodici ceste avanzate e la stessa abbondanza sorprendente era già a Cana, con le sei giare di vino buono. E tuttavia queste figure dell’abbondanza, dell’eccesso traboccante, hanno esiti opposti. Da un lato c’è la gioia della festa, il prodigio di una Parola che nutre oltre ogni attesa, la cura inaspettata del maestro per i suoi discepoli; dall’altro la nausea, un bene che esce dalle narici e dagli occhi, un disgusto per l’esistenza.<br> È chiaro che la differenza tra la festa e la nausea, tra la gioia di vivere e il disgusto per la vita non sta nella disponibilità delle cose, ma in qualcosa di più profondo: tutto accade nello sguardo degli esseri umani. Gioia e disgusto sono frequenze dell’animo, non della realtà, per questo esiste una originaria incommensurabilità, un’impossibilità di trovare una misura del nostro modo di stare al mondo. C’è una misura che non si può misurare, se è vero che l’incanto e il disgusto non sono nelle cose ma nello sguardo, se è vero che la bellezza o la nausea per il mondo sono sospese all’opera della libertà. Già questo basterebbe a dichiarare risibile la nostra pretesa di misurare il benessere, pretesa in virtù della quale abbiamo spesso smesso di insegnare ai nostri figli a scrutare in questo luogo più profondo. Certo, la storia ce lo getta in faccia: l’epoca in cui viviamo, la grande epoca dei consumi, l’epoca della produzione dell’abbondanza, non sembra un’epoca di festa, ma ogni anno che passa sembra sempre più l’epoca del disgusto. Qualcuno dirà che è un mistero, eppure in questi testi si può almeno intuire qualcosa delle condizioni in cui l’eccesso diventa nausea.<br> Mi sembra che ci siano almeno due grandi inganni che il racconto dei Numeri rivela di noi stessi. Il primo è la pretesa che la gioia, la felicità, la pienezza della vita sia uno stato perenne, una condizione stabile e, in qualche modo un diritto o il compimento di ciò che è la vita. La lamentela del popolo lo mette in luce molto bene: stavamo meglio prima, quando non eravamo liberi, quando vivevamo in Egitto con tutte le delizie del cibo. Mi sembra ci sia una grande incomprensione delle dinamiche umane in chi si immagina che la vita debba essere una forma di gioia perenne e soprattutto in chi lo promette. Non è certo un caso che sia il faraone colui che garantisce questa permanenza della gioia, a prezzo di una libertà asservita. La sovrabbondanza non è il compimento della vita e tanto meno un diritto; la gioia è sempre un cibo per camminare, la gioia ha sempre una destinazione, che per Israele è la libertà, un’esistenza da popolo libero. Confondere la gioia con la meta è il grande peccato della lamentela di Israele, ma è anche il grande peccato che sta di fronte a ciascuno di noi. La nausea non è l’eccesso delle cose, ma l’eccesso della loro presenza, la capacità che le cose hanno di saturare, di riempire tutti i sensi (di uscire dal naso e degli occhi). Nausea è l’impossibilità di trovare una destinazione all’abbondanza delle cose, è vivere il dramma del fatto che è tutto qui, non c’è altro, non c’è dell’altro oltre alle cose. La seconda figura è una nausea che si genera da una libertà che non è messa all’opera. Nel miracolo dei pani – ma anche a Cana è lo stesso – Gesù chiede ai discepoli di essere parte di quest’opera di salvezza e di abbondanza: date voi stessi da mangiare, domanda. L’abbondanza, allora, diventa una partecipazione alla generazione del bene. Ora, è in virtù di questa partecipazione che l’abbondanza non diventa disgusto, è perché chiama in causa la nostra opera. Nel deserto per la manna, Israele aveva almeno il compito di raccogliere; il miracolo della carne, delle quaglie, toglie anche quest’ultimo velo di libertà e riporta Israele alla schiavitù.<br> Ecco, sono due le cose che impediscono al mondo di diventare disgustoso: un senso dell’oltre e il fatto che questo senso sia partecipativo, ci permetta di partecipare, ci faccia parte dell’opera. La grazia da sola, il di più della vita, non basta se non si presenta come appello: solo un forte senso del carattere destinale della libertà ci permetterà di attraversare quest’epoca difficile. Quel giorno con Gesù, ai cinquemila furono rivolte parole che davano profondità alla vita e che chiedevano loro di aver cura di questa profondità: allora ciò che assomigliava a un deserto divenne un grande spazio verde, brulicante di vita. Anche noi, dopo aver ascoltato il Signore a avere spezzato il pane, saremo lieti di rimetterci in cammino.

A cura di:
Don Luca Peyron



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